Cosa sarebbe dei piatti più amati della cucina italiana senza il pomodoro? Eppure, per secoli, nel Bel paese il pomodoro è stato considerato una vera e propria stranezza, per non dire schifezza... Ma andiamo con ordine.
Il pomodoro selvatico è originario del Sudamerica centrale, e i primi europei a “scoprirlo” furono gli spagnoli del condottiero Hernán Cortés intorno al 1520. Dopo aver abbattuto la civiltà azteca, il conquistador e i suoi uomini portarono le piantine di pomodoro in Europa.
Quando il pomodoro faceva paura
Come tutti i migranti della storia, anche il pomodoro fece un’enorme fatica a farsi accettare in Europa, suscitando diffidenze. Il fatto è che, a lungo, il pomodoro in Italia venne considerato esclusivamente una pianta decorativa. Anticamente i suoi frutti erano di colore giallo e solo nel tempo le selezioni varietali portarono al colore rosso. Verso la fine del Cinquecento iniziò ad apparire qualche testimonianza di chi, nel generale scetticismo, aveva cominciato a tentarne poco convinti assaggi, così come missionari e naturalisti spagnoli ne documentavano il consumo in Messico. Il risultato però non cambiava: per gli europei, i pomodori a tavola continuavano a risultare più respingenti che allettanti. Non si capiva quali fossero il momento e il modo migliore per mangiarli: verdi non erano commestibili, una volta maturi marcivano in fretta, e durante la cottura si squagliavano assumendo un sapore e una consistenza sconosciute alla cucina europea. C’era poi un altro problema: le foglie della pianta di pomodoro apparivano simili a quelle di erba morella o di belladonna, di cui si conosceva la forte tossicità. In sostanza, la paura del pomodoro come cibo e il suo apprezzamento come ornamento di orti e giardini proseguirono per tutto il XVI secolo e per buona parte dei due successivi.
Quando il povero ortaggio migrante arrivò in Francia, Inghilterra e nei Paesi Bassi, il giudizio - se possibile - si rafforzò in peggio. Così nel 1581 il medico e naturalista fiammingo Matthias de l’Obel descriveva i pomodori: “il freddo, fetido odore è sufficiente a far capire quanto insalubri e perniciosi possono essere per chi li mangia”. “Rancidi e maleodoranti” li definì il botanico inglese John Gerard, mentre Giovanni Domenico Sala, medico padovano da considerarsi di fatto il primo nutrizionista della storia, in un suo testo arrivò nel 1628 ad accostare il pomodoro a ragni, grilli e locuste di cui alcuni popoli erano soliti nutrirsi, “tutte strane e orribili cose, che poche persone sconsiderate hanno il costume di mangiare”.
Dal sughetto per condire la carne umana al prodotto cardine della nostra cucina: la salsa spagnola
Bisogna pur dire, a onor del vero, che i pomodori del Seicento non si avvicinavano alla bontà delle varietà attuali, che hanno guadagnato dolcezza e perso acidità dopo una densa attività di incroci. Gli stessi aztechi d’altro canto mangiavano pomodori, tramutati in salsa, solo a seguito di vari interventi correttivi. Francisco Hernández, medico di corte di Filippo II, in una ponderosa opera dedicata alle piante americane, già scriveva infatti alla fine del 1500 della salsa o intinctus “che si prepara con i pomodori affettati e il peperoncino, che integra il sapore di quasi tutti i piatti e di quasi tutti i cibi, e risveglia l’appetito”. Insomma, una salsa piccante d’accompagnamento ai piatti di pesce e di carne, intendendo per tale anche quella umana, visto che nei banchetti degli aztechi comparivano anche le membra degli sconfitti in combattimento. L’opera di Hernández fu pubblicata nel 1628 in latino e più tardi in italiano, ma diventa facile capire a questo punto perché la salsa di pomodoro che entra nei libri di cucina europei nel XVII secolo è spesso chiamata “spagnola”: è tramite gli iberici che la preparazione messicana viene introdotta nel nostro continente. Furono gli spagnoli, tramite l’assidua frequentazione con i nativi americani, i primi europei a vincere il pregiudizio sulla tossicità del pomodoro. In Italia bisognerà attendere però il 1692 per leggere una ricetta a base di pomodoro scritta da Antonio Latini, celeberrimo cuoco approdato alla corte di Esteban Carrillo y Salcedo, grande di Spagna e reggente del vicereame di Napoli. Latini chiama questa prima ricetta “Salsa di pomadoro alla spagnola”. Sì, sarebbe bello poter dire che la base della cucina italiana è stata inventata in Italia e magari a Napoli. La realtà però è quella che venne riportata da Latini, e cioè che la salsa di pomodoro era stata inventata in Spagna, rielaborando le testimonianze provenienti dal Messico (ai pomodori abbrustoliti sulla brace, ripuliti della loro pelle e tritati col coltello, Latini al peperoncino aggiunge cipolla, timo, sale, olio e aceto). Il cuoco termina la descrizione della ricetta con una considerazione personale: “sarà una salsa molto gustosa, per bollito, o per altro”. Per accompagnare le carni bollite, “o per altro”, la salsa rossa troverà accoglienza nella cucina italiana del Sette-Ottocento: la riduzione a salsa trova al pomodoro il posto adatto, includendolo nel sistema gastronomico e vincendo la secolare diffidenza dei medici. “Facilitano molto con il loro sugo acido la digestione”, scrisse al riguardo, riportando il prevalente orientamento medico di fine Settecento, il cuoco e letterato Vincenzo Corrado, napoletano d’adozione, che nel 1773 ci dà una ricetta della “salsa di pomidoro” da bollire in sugo di castrato e da servire sul castrato medesimo. La storia dunque finisce qui? Possiamo dire che da questo momento in poi la salsa di pomodoro entrò a tutti gli effetti a far parte dell’alimentazione degli italiani, diventando una preparazione “di massa”? Assolutamente no, perché il fatto che la salsa di pomodoro avesse cominciato a comparire nelle ricette scritte dai grandi cuochi della nobiltà e dell’alta borghesia, non stava affatto a significare che tutta la popolazione della penisola avesse cominciato a servirsene.
È qui che comincia la seconda parte della storia, per la quale dobbiamo tornare in America.